lunedì 28 settembre 2009

QUEL CHE È STATO È STATO...

Termina qui il mio Diario Angolano, e mi mancherà questo senso di avventura scoperto in Africa.
Nel complesso, però, sono contento così.
Troppo lavoro e scarsi margini di libertà personale: non avrei resistito a lungo.

Vi ringrazio tutti per avermi seguito, è stato bello aver condiviso nel blog alcune delle mie esperienze.

Sandro

venerdì 25 settembre 2009

LA MIA FINESTRA

Al termine di un lungo viaggio tutti abbiamo una finestra da ricordare.
Quella della stanza presa in affitto, dell’albergo, o della camera in cui ci hanno ospitati.
La sua vista è stato lo sfondo di mille riflessioni, ansie, entusiasmi, o semplici distensioni in attesa della cena.
La finestra è una linea di confine tra il nostro mondo e la nuova realtà in cui ci troviamo, un punto di osservazione protetto, perché basta un passo indietro per potersi isolare.
E poi, secondo me, da una finestra si capiscono tante cose, anche sull’Angola…


La “mia finestra” è in cucina e affaccia su un bruttissimo parcheggio condominiale, sullo smog e i rumori di Avenida Brasil, ma quest’immagine parla e la porterò negli occhi. Le scorte d’acqua, ad esempio, dicono che a Luanda spesso si rimane all’asciutto, e sotto la doccia è necessario andare con accapatoio e bottiglie.
La grata poi è di serie negli appartamenti al piano terra. La microcriminalità, o al contrario il livello di paranoia dei lavoratori occidentali, raggiungono qui vette elevate.
Ah, e la zanzariera: può evitarci una malaria.
Spostandoci dalla cucina al computer, banalmente si incontra la finestra del mio Diario Angolano, ormai socchiusa…

mercoledì 23 settembre 2009

AL MEZZA LUNA PARK

L’abbandono, ecco il tema del mio blog!
I relitti di Panguila, le tombe dei soldati, le sedie dei vigilanti e persino un’antica capitale: tutto in un modo o nell’altro è stato abbandonato.
Nella Luanda che ho visto, nell’Angola che ho visto, risalta un’atmosfera di abbandono, torno a dire.
Che poi non è strano, perché nel 1975, ottenuta l’indipendenza dal Portogallo, l’MPLA minaccia vendetta, e i coloni fuggono abbandonando case, mezzi, attività. Migliaia e migliaia di cose. Insomma, questa sindrome qui è nella storia, ad ogni angolo di strada, e si è infiltrata pure tra i miei post. Io vi giuro che ne ero inconsapevole, me ne sono accorto solo al Luna Park.

Pago 50 Kwanzas per entrare, mezzo euro, e mi sembran troppo pochi.
Allora lo richiedo: tutto incluso? Pure l’autoscontro?
La cassiera dice sì, ma guarda strano.
Poi faccio un giro del piazzale e mi rendo conto: le giostre sono abbandonate, solo i bar all’aperto funzionano. È un "mezza Luna Park", si può bere una birra contemplando il barcone dei pirati all’imbrunire...

O i colori della giostra coi seggiolini che ruotano…

lunedì 21 settembre 2009

LUANDA, FU MASSANGANO

Non esistono guide turistiche dell’Angola, e su Internet le informazioni sono scarse.
Ci si sposta così, per sentito dire, o perché un amico è stato lì e ha scattato delle foto che incuriosiscono. Ognuno ha i suoi itinerari, le sue scoperte.
Domenica 13 ho scelto di andare a Dondo perché è a sud-est, 200 chilometri da Luanda, e i paesaggi dell’interno non li avevo mai visti. So che è un vecchio insediamento coloniale sulle rive del Kwanza, con le strade larghe e le case basse, bianche e dipinte sui bordi, come quelle alentejane. Ho il serbatoio pieno di gasolio, posso partire senza la paura di non trovare un distributore.

Passo Viana, Catete, e la strada entra nel mato árido, una foresta secca di arbusti e baobab. Cerco di ricordare se ho mai sofferto un caldo simile. Sì forse, a Siracusa molto tempo fa, era luglio e stavo in vacanza da una zia. Però mi guardo intorno, tra i finestrini e il parabrezza opaco, sporco di polvere di argilla. C’è un fenomeno nuovo, che non rintraccio in nessun ricordo: la luce, è di più. Come se di fronte a un Sole ce ne fosse un altro.
E mentre penso a queste cose vedo un poliziotto con la camicia sbottonata, che fa segno di fermarmi.

Quando abbasso il vetro l’afa mi travolge. L’agente mi chiede di dare un passaggio fino a Dondo al suo comandante, poiché loro non hanno mezzi. Sale a bordo un anziano signore in divisa, all’apparenza cordiale e taciturno.
Non conversa infatti, scambiamo poche formalità, mentre fissa il paesaggio con un mezzo sorriso stampato sulle labbra. Poi, a 10 chilometri dall’arrivo, solleva una mano con l’indice puntato a sinistra: “Questo sentiero porta a Massangano, l’antica capitale dell’Angola”.

Il comandante si toglie il cappello, sembra felice di avermi incuriosito, e mi racconta che nel quindicesimo secolo i primi europei ad arrivare in Angola furono gli olandesi, che sbarcarono a Massangano dopo aver risalito il Kwanza. Poi vennero cacciati dai portoghesi, che proprio lì stabilirono la capitale dei nuovi territori occupati, prima di spostarla a Luanda (1575) per motivi strategici. “È rimasto tutto in piedi: chiesa, fortezze, tribunali. Ci vada, vale a pena”.

Durante la settimana cerco di verificare questa storia in rete, ma non trovo nessuna notizia di Massangano. Poi convinco il mio collega Dawen Rocha ad accompagarmi per domenica 20, e ci metto poco con un segreto così.

Il bivio per Massangano sulla strada di Dondo. Ci sono 20 chilometri da fare tutti in seconda, tra buche profonde e attraversamenti continui di macachi.

Il primo Municipio, costruito nel sedicesimo secolo. Lo troviamo all’ingresso del paese, dove appena usciamo dalla macchina ci circondano dei bambini, non abituati alla vista dei forestieri e in particolare dei bianchi. Mi inseguono un centinaio di metri e gridano: “Girati branco, girati branco!”.

La fortezza. Dawen mi dice che gli abitanti bruciano le piante secche intorno alle capanne e agli edifici per allontanare i serpenti. Il villaggio è quasi disabitato, ci sono soltanto delle baracche di terra cotta costruite giù in una valle.

L’interno della fortezza.

La chiesa di Nossa Senhora da Victoria. Con un lungo bastone apro un portone laterale socchiuso.

L’interno diroccato della chiesa.

Vista frontale.

La tomba di Paulo Dias de Novais. Fu il rappresentante del re portoghese in Angola, e fondò Luanda, che infatti si chiamava inizialmente São Paulo de Loanda, con la “o”.

L’antica prigione. Funzionava come centro di raccolta schiavi.

giovedì 17 settembre 2009

CHI L’HA VISTO?

Questo titolo non è dovuto alla mia improvvisa latitanza dalla blogosfera, ma all’insormontabile problema di ottenere un visto di lavoro, che mi costringerà a interrompere l’esperienza angolana a fine mese. Il 28 settembre infatti tornerò in Italia.
Confesso che a Natale avrei comunque lasciato Luanda, data la quantità di rinunce e sacrifici che comporta questa vita, perciò non leggete il post come uno sfogo. Spero invece che possa aiutare chi un domani vorrà avventurarsi in Africa.

Sono partito dall’Italia con un visto turistico valido 30 giorni e prorogabile per altri 60. L’azienda, in buona fede, mi aveva assicurato di poterlo convertire in visto di lavoro prima dei tre mesi. Che cos’è successo allora?

Qui devo fare una premessa. Le aziende straniere intenzionate ad operare in Angola devono procurarsi una licenza, il famigerato Alvará. Chi ha un Alvará per attività petrolifere (come ad esempio l’ENI) può richiedere i visti di lavoro senza limiti di numero e complicazioni burocratiche, mentre chi è in possesso di un semplice Alvará commerciale è obbligato a inviare le pratiche a un dipartimento del Ministero del Lavoro, il DEFA.

Che cosa succede al DEFA? I funzionari, con la complicità di una sofisticata rete di intermediari e faccendieri, bloccano le domande in attesa che il personale delle imprese straniere entri in clandestinità, in modo da poter esigere tangenti sempre più alte per il rilascio dei visti di lavoro. E a chi si lamenta o non paga la cifra imposta (si va dai 5.000 ai 10.000 dollari a passaporto) inviano un’ispezione fiscale. Ed è un ricatto al quale bisogna cedere, se si vuol tener lontana la polizia dai propri uffici, pieni di “innocenti” clandestini.

Detto ciò a dieci giorni dalla mia partenza non ho ancora ricevuto gli stipendi. In tutta l’Angola infatti non è possibile trovare dollari o euro da accreditare alle banche straniere. Perché?
Ministri e ufficiali dell’esercito hanno azzerato le riserve auree della Banca Centrale (5 miliardi di dollari) esportando i soldi per interesse personale.
Il Governatore, per ricostituire le riserve, sta vietando quindi agli istituti di credito di emettere la valuta pregiata che arriva con gli introiti del petrolio.

Il risultato è una svalutazione pericolosa del Kwanza, che in 20 giorni dal cambio 1$/80 Kwanzas è passato a 1$/100 Kwanzas, incentivando il mercato nero.

Pochi giorni fa leggevo che Benedetto XVI, nella sua recente visita a Luanda, ha celebrato una messa all’Estádio dos Coqueiros, proprio dove ho pagato la mia prima gasosa. Durante l’omelia affermò che le peggiori piaghe angolane sono la disonestà e la corruzione dei suoi governanti, che a valanga si ripercuotono su ogni funzionario pubblico.
Proprio nei lavori di ristrutturazione di quell’impianto, consacrato per l’occasione, sono spariti 14 milioni di dollari. I responsabili del furto dovevano esser lì nella tribuna delle autorità, a prendersi la benedizione del Papa.

martedì 8 settembre 2009

LE INSEGNE DI LUANDA

Nella maggioranza dei quartieri di Luanda non arriva l’elettricità.
Così, anche per risparmiare, le insegne dei negozi vengono “dipinte” e non installate.
Come si dice in questi casi: di necessità virtù. Ne viene fuori una strana forma d’arte che non avevo mai visto prima.

Estetista

Officina ricambi auto

Lavanderia

Agenzia funebre

Tabaccheria

venerdì 4 settembre 2009

AL MERCATO NERO

“VENDESI RENI”

In Rua Kwamme Nkrumah, di fronte al Ministero della Salute.

giovedì 3 settembre 2009

IL MUSEO DELLA SCHIAVITÙ

Tra il 1482 e il 1858 i portoghesi deportarono 4 milioni e 500 mila schiavi dall’Angola, in maggioranza verso il Brasile.
Un museo della schiavitù a Luanda non è proprio “fuori luogo”.
L’ho visitato sabato scorso, è situato in un promontorio all’estremità di una piccola penisola, nell’ex residenza di un commerciante di schiavi lusitano, un certo Álvaro de Andrade.


Appena entro rimango deluso, sembra una galleria di quadri e stampe dell’epoca, con immagini di navi in partenza e folle di gente ai lavori forzati. C’è una palla di ferro da 15 chili, una frusta e un grafico che quantifica l’andamento della tratta durante i secoli. Insomma, niente che non potessi aspettarmi.
Poi però arriva una bella signora, con la figlia, e per ogni reperto, per ogni angolo di questa villa, ha una storia da raccontare. “Me lo diceva mio nonno”, sottolinea a voce alta durante le sue spiegazioni. “Ecco, guardate quel dipinto appoggiato alla parete”.


“Bloccavano le gambe ai neri e pavimentavano le superfici. Sapete perché? Se gli schiavi avessero trovato della terra si sarebbero suicidati mangiandola”.
Indica una porta verde alle mie spalle. Da lì, dice, parte un passaggio scavato nella roccia che scende fino al mare. Álvaro de Andrade ci rinchiudeva gli schiavi in esubero, o quelli troppo deboli, ed aspettava che l’alta marea li annegasse. “Poi parlano di Hitler”, insiste la signora, “ma tutto questo male non glielo ricorda mai nessuno agli europei?”
È doloroso avvertire una colpa “storica”, nel museo ero l’unico bianco insieme a qualche cinese, per un attimo ho pensato pure di dover chiedere scusa.
La signora mi guarda, forse immagina di essere stata troppo dura, non so, e mi prende sotto braccio: “Vieni fuori che ti faccio una foto scema!”


Sì, è un pentolone dove bollivano gli schiavi.

mercoledì 2 settembre 2009

MA IO QUESTA L’HO GIÀ SENTITA…

Sì, da qualche parte, ma non qui nel Terzo Mondo però…